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L’ANIMA NUDA DI SERGIO TRENTI di Mario Cossali

Nel luglio del 1988 scrivevo: ‘Sergio Trenti dipinge la solitudine, ne fa un canto ossessivo, dal quale sprigiona tutti gli echi possibili. L’uomo solo di Trenti cammina instancabile offrendo agli sguardi che lo circondano la propria anima nuda. Quest’uomo solo contiene in sé tutti gli uomini, tutto il mondo e gli spazi che attraversa vengono dilatati dalla Sua Umanità (sprofondata, a volte, mai sconfitta) e i colori che lo rappresentano sono la lingua del suo patire.” Il pittore di Pinzolo era in senso stretto, nel senso più vero e più profondo, un poeta, rappresentabile al meglio nella dimensione profetica di interprete “maledetto” della nostra umana condizione, di svelatore di abissi e di orizzonti normal. mente invisibili. Il suo lavoro creativo ha sempre ruotato attorno alla figura, di uomo, di donna, di santo, molte volte di Cristo in croce, cercando di portarne alla luce, letteralmente, il mistero. La figura rappresentata da SergioTrenti, al di là del particola- re contenuto diciamo così narrativo, nel quale è inserita, al di là insomma del contesto tematico, è sempre una figura colma, estrema, una figura che contiene il mondo ai confini del mondo, ora in una sorprendente sovrabbondanza di emozioni, di sentimenti, di sogni e di pensieri, ora non rinunciando all’immancabile scorta di alienazioni, turbamenti, paure, allucinazioni. Ci troviamo di fronte ad una pittura imbevuta di ogni possibile umore esistenziale, che gronda soprattutto lacrime e sangue, fatica di vivere e sperare, che esibisce senza pudore conformistico una straordinaria forma di resistenza fisica e spirituale insieme, per non soccombere sotto i colpi impietosi del maglio della violenza, dell’ingiustizia, della sopraffazione. Dal punto di vista espressivo possiamo senza alcun dubbio sottolineare nella pittura dell’artista di Pinzolo un ricorrente ed insistente tratto metafisico che ben si intreccia con una sorta di geometrizzazione prospettica della visione: sia il quadro che la pittura murale finiscono per acquisire sempre una preziosa profondità, che dimostra in modo Inequivocabile la rara perizia tecnica, che ha contraddistinto un impegno creativo incessante e per molti aspetti totalizzante. Di un artista come Sergio Trenti è pericolosamente facile non accorgersi della sottile maestria, perché distratti dalla strana alchimia tra la forma imprevista dell’immagine e il forte sostrato ideale che la connota, ma ogni sua composizione deve essere valutata per l’architettura interna mai casuale, mai spontanea, pensata nei suoi rapporti e nei suoi effetti. Egli dimostra una raffinata cultura pittorica, una conoscenza di prima mano della storia dell’arte attraverso la conoscenza dei meccanismi interni delle opere più significative dei suoi più importanti protagonisti. Sergio Trenti ha dipinto proprio per questo quasi sempre la solitudine trasformandola in un canto ossessivo, dal quale sprigionare tutti gli echi possibili. L’uomo solo della sua pittura è quello della sua vita, ma finisce con l’identificarsi con il cammino e con Il destino di tutti gli uomini. Il rapporto tra il nostro pittore e le sue opere, fonte di disillusa eppur di giorno in giorno ricercata salvezza, può essere reinterpretato forse anche con i versi di Andrea Zanzotto. “Quanto a lungo tra il grano e tra il vento/di quelle soffitte/più alte, più estese che il cielo,/quanto a lungo vi ho lasciate/mie scritture, miei rischi appassiti./Con l’angelo e con la chimera/con l’antico strumento/col diario e col dramma/che giocano le notti/a vicenda col sole/vi ho lasciate lassù perché salvaste/dalle ustioni della luce/il mio tetto incerto/i comignoli disorientati/le terrazze ove cammina impazzita la grandine”. Le scritture, le poesie come I segni e le pitture salvano dalle ustioni della luce il tetto incerto, vale a dire dai colpi bassi della vita il cuore e l’anima nella loro precarietà. Grazie a questa forza della pittura Sergio Trenti, proprio lui, principe di una inguaribile, anche se non amata solitudine, è riuscito con la sua arte pubblica, sui muri delle case e delle piazze, nei luoghi simbolo della comunità a cogliere il senso intimo, storico e identitario, del suo popolo della Rendena e delle Giudicarie, salvando non solo il tetto suo, ma anche i tetti che gli facevano corona. Sergio Trenti ha attraversato tanti luoghi dell’esperienza umana: la fatica, il lavoro, la sconfitta, il desiderio, la speranza, l’ingenuità, la generosità, la fede. Nel suo viaggio lungo e tormentato è stato fedele a se stesso fino alla macerazione, non ha mai ceduto di fronte al severo vaglio del suo ideale di vita e di lavoro e se ha ceduto alle sue umane debolezze questo non gli ha mai impedito di tenere alta la sua coerenza morale d’artista. Quando ho avuto la fortuna di incontrarlo mi sono sentito subito “tirato in mezzo”, appunto, ad un intrico spinoso di debolezza e di moralità, che non riuscivo a capire; solo davanti alle sue opere, scorrendo con lo sguardo dalla “più vecchia” alla “più giovane”, ho avvertito la forza contagiosa e magnetica di un “miracolo” creativo, Si trattava e si tratta del “miracolo” che si compie ogni volta con il gesto artistico autentico, vero cioè nell’ispirazione e nel segno, nella misteriosa e insieme palpabilissima lingua della creatività. Sergio Trenti ha estratto dalla sua sofferenza, dalla sua solitudine la luce di questo miracolo e ce l’ha consegnata non tanto ad memoriam, quanto per farla vivere con la stessa intensità nella nostra vita e in quella delle generazioni future.


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